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Creepypasta

Dog Smile Creepypasta, La Storia Che Terrorizza Gli Utenti Dagli Anni 90

La smile.jpg ebbe effetti terribili su chiunque ebbe la sfortuna di guardarla, tra attacchi di epilessia, depressione, giramenti di testa e incubi.

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Quella sulla smile.jpg o smile.dog è forse tra le prime (se non la prima) creepypasta circolata sul web. Risale agli anni ’90 e riguarda una misteriosa foto circolata su forum e chat a quei tempi. Foto che ritrae un presunto cane in una stanza scura, illuminato dalla luce di un flash, che sorride. Al posto dei denti canini però, nella bocca del cane, ci sono bianchi e grandi denti umani. Alle spalle del cane vi è una mano che sembra far cenno a chi osserva la foto di avvicinarsi. La smile.jpg ebbe effetti terribili su chiunque ebbe la sfortuna di guardarla, tra attacchi di epilessia, depressione, giramenti di testa e incubi. Attualmente però non c’è traccia di questa leggendaria smile.jpg sul web mentre abbondano opere dei fan che cercano di ricostruirne l’essenza (come quella qui sopra).

Dog Smile Creepypasta

La Creepypasta

La pioggia tamburella incessante sul vetro del finestrino. Un ritmo inquietante, ma armonioso, ciclico. Quasi ipnotico. E pensare che fino a poco fa, era una così soleggiata giornata estiva.

Suppongo che quest’improvviso temporale abbia rovinato le gite al mare di molte famiglie, ma non è un mio problema, sono anni che non vado in vacanza. Il vagone non è dei più puliti: I sedili sono appiccicosi, un numero indefinibile di briciole sciama anche nei luoghi più impensabili del mezzo e un sottile ma insistente puzzo di sudore sembra permearlo tutto. Sono abbastanza sicuro che buona parte di esso sia colpa mia. Forse è per questo che nessun passeggero ha deciso di sedersi accanto a me.

Meglio così, ho bisogno del silenzio più assoluto per concentrarmi e riflettere sul da farsi, mentre attendo che il treno parta riconducendomi a casa. La scatola è tanto piccola quanto anonima: la stoffa blu si è consumata e ingiallita, e una piccola chiazza di sporco incrosta la parte superiore. Passo nervosamente il piccolo oggetto da una mano all’altra, mentre rifletto sugli avvenimenti che mi hanno portato ad ottenerlo:

Smile.JPG. Un nome, una leggenda. La foto di uno strano e inquietante Husky siberiano che siede in una stanza completamente buia, sorridendo malevolo con denti disgustosi, più simili a quelli di un uomo che a quelli di un cane. La storia di quest’immagine e la foto stessa passarono sotto i riflettori quando un misterioso liceale, nel 2007, decise di postare il tutto su un noto sito di racconti horror, e da allora è diventata una delle leggende metropolitane più gettonate del web, da inesauribile fonte di ispirazione per centinaia di altre storie simili a una vera e propria catena virale sulla scia di Sant’Antonio.

Io venni a conoscenza di Smile.JPG solo un anno dopo che aveva sfondato su Internet. All’epoca ero un adolescente poco incline alla socializzazione, avevo pochi amici e un rapporto complicato con i miei genitori. Ciò mi portava spesso a rinchiudermi in camera mia e a leggere tutte le varie storie orrorifiche che giravano per la rete, e quando sentii parlare per la prima volta dell’immagine maledetta pensai a qualcosa sulla falsariga di siti shock come hello.jpg. Decisi comunque di informarmi meglio, e non fu difficile trovare la storia completa.

Rimasi così affascinato da quel racconto, così preso da quelle parole raccapriccianti, che terminai la lettura in un batter d’occhio, trattenendo il fiato fin quasi a svenire. Fu una vera delusione quando vidi l’immagine: quell’husky non aveva assolutamente nulla di spaventoso, né mi apparve in sogno o causò problemi alla mia salute. Molte delle storie che avevo letto precedentemente erano accompagnate da immagini ben più spaventose di quella, benché la parte puramente scritta rimanesse imbattuta su tutti i punti di vista, e in virtù di questo, decisi di fare qualche altra ricerca sul cane infernale.

Rimasi sorpreso quando, al digitare su google immagini “Smile.JPG”, apparve quella che in seguito scoprii essere la seconda versione più famosa. Era ciò che mi aspettavo di vedere al termine della lettura: una creatura indescrivibile, a metà strada tra il demone, il cane e l’uomo, che fissava lo spettatore con maligni occhi giallastri e un sorriso sanguinolento con denti simili a quelli di uno squalo umanoide. La foto mi scioccò a tal punto che immediatamente chiusi il motore di ricerca e spensi il computer. Quella prima notte fu piena di riflessioni e paura, ma quando arrivò il momento di alzarsi per andare a scuola, decisi e giurai che avrei scoperto tutta la verità su Smile.JPG.

Divenne la mia ossessione. Passavo ogni singolo momento del mio tempo libero alla ricerca di qualsiasi informazione riguardasse quel demone che tanto mi aveva scosso. Così tante domande eccitanti che aspettavano una risposta! Chi o cos’era quell’essere? Cosa voleva? Chi l’aveva raffigurato? Perché tormentava in sogno le persone? Per quale motivo voleva “diffondere il verbo”? E cos’era esattamente questo “verbo”?

Ma soprattutto, chi fu a postare per la primissima volta l’immagine sul web, considerando le testimonianze più o meno attendibili che la vedevano datata ai primissimi anni di Internet? Troppi interrogativi e troppo poco tempo per cercare una risposta ad ognuno di essi. Sentivo come se davanti a me ci fosse questo colossale, macabro puzzle, che non richiedeva soltanto di essere composto ma anche di trovare tutti i pezzi necessari al suo completamento, e la voglia di scoprire cosa avrebbe rivelato alla fine mi divorava dentro. La notte mi maledivo quando ero costretto ad andare a dormire.

Ridussi al minimo qualsiasi rapporto con il mondo esterno: chiusi con le poche amicizie che avevo, cominciai a marinare sempre più spesso la scuola e limitai qualsiasi uscita non indispensabile dalla mia cameretta. I risultati si fecero vedere: i miei voti, già mediocri, scesero quasi tutti ben al di sotto della sufficienza. Solo ai temi riuscivo a ottenere buoni risultati: scrivevo pagine e pagine sulla mia ossessione, erano diventati una specie di diario personale dove annotavo i miei progressi, all’epoca ancora abbastanza scarsi.

I professori erano preoccupati, oh sì se lo erano. Sempre con quelle loro teorie da psicologi mancati, chiamarono più volte mia madre (mio padre se n’era andato di casa molto tempo prima, e nessuno ne aveva più sentito parlare), ma nemmeno lei sapeva spiegare questo mio nuovo comportamento. D’altro canto, era sempre stata una donna molto debole: le bastava che non le dessi troppi problemi e le permettessi di arrivare tranquillamente a fine mese, e mi avrebbe concesso di tutto. Perfino quando a sedici anni le annunciai la mia decisione di lasciare la scuola non oppose la minima resistenza.

Riflettendoci ora, credo che per lei rappresentassi una responsabilità come un’altra, una semplice bolletta in più o qualcosa del genere: prima sarebbe riuscita a scaricarmi, meglio sarebbe stato. E onestamente, a me andava bene così. Mi permetteva di concentrarmi al massimo sul mio compito senza inutili distrazioni, e probabilmente fu per questo che in un lasso di tempo relativamente breve finii le informazioni disponibili. Già, in pochi anni avevo esplorato il web da cima a fondo, scovando qualsiasi sito, qualsiasi testimonianza, qualsiasi post riguardasse Smiledog. E non avevo fatto nemmeno un dannatissimo progresso. Ero arrabbiato, frustrato e deluso. Possibile che fosse stato insabbiato tutto così bene?

Sapete che secondo una ricerca sulle dimensioni della rete condotta nel 2000 da Bright Planet, un’organizzazione degli Stati Uniti d’America, il Web è costituito da oltre 550 miliardi di documenti mentre Google ne indicizza solo 2 miliardi, ossia meno dell’uno per cento? Beh, io no. Lo scoprii casualmente, visionando un post sull’argomento su uno dei tanti siti che ho visitato per trovare informazioni su Smile.JPG.

Questa parte nascosta di Internet è chiamata “Deep Web”, o “Web Invisibile”, ed’è praticamente impossibile accedervi senza appositi programmi. Visto i contenuti non propriamente adatti a tutti di questa facciata oscura di Internet, sapevo di non dover prendere alla leggera le potenzialità che essa poteva offrire. Leggere ogni singolo post su un argomento qualsiasi, anche il più frivolo, sarebbe stato fisicamente impossibile anche spendendoci intere vite, e come se non bastasse più si scavava in profondità, più diventava tutto più rischioso. Siti pedopornografici, snuff movie, perfino raduni terroristici: il Deep Web non era solo il lato oscuro di Internet, era il lato oscuro dell’umanità stessa.

Ma era anche una miniera inesauribile di informazioni: nomi, luoghi, storie, c’era di tutto, e più scavavo, più tasselli del puzzle riuscivo a trovare. Non cercavo l’origine della creatura raffigurata da Smile.JPG: ha senso domandarsi quando è nata la Paura? No, le mie domande erano altre, e finalmente stavo per trovare le risposte. La percentuale dei miei progressi aveva subito un considerevole aumento, e questo era sufficiente a spingermi a raddoppiare gli sforzi.

Sicuramente, la parte più interessante delle mie scoperte riguardava la storia postata nel 2007 dal misterioso liceale che aveva reso famosa la leggenda di Smiledog. Tutti concordavano sul fatto che quest’ultima fosse effettivamente avvenuta, e il ragazzo, chiamato Lucas Payne, aveva trovato davvero l’immagine originale, postandola insieme al racconto.

Nel giro di dieci minuti, l’imprudente Lucas dovette spiegare un bel po’ di cose agli agenti dell’FBI entrati in casa sfondando la porta. Tali agenti non ci misero molto a modificare il tutto: era facile ribaltare l’intera situazione a loro vantaggio. Benché non famosa come poi sarebbe diventata, la leggenda di un’immagine maledetta girava già da molto tempo sul web.

Trasformare la faccenda in una piccola storiella dell’orrore da leggere di sera per passare una notte insonne era molto più facile che cancellarne ogni traccia da Internet, impresa che sarebbe stata totalmente impossibile, e avrebbe convinto la maggior parte dei lettori a non scavare troppo in profondità e farsi del male (e considerando che l’immagine originale era già introvabile di suo, questa manovra salvò molte vite).

Così presero la normalissima immagine di un husky siberiano, la modificarono aggiungendo un sorriso inquietante, un filtro diverso e qualche effetto macabro e la sostituirono alla vera immagine, la versione originale dell’uomo-cane demoniaco. Tolsero i veri nomi delle persone coinvolte, aggiunsero nominativi fittizi e fregarono tutti. Il ragazzo venne arrestato senza accuse formali e il caso archiviato. I due agenti incaricati della rimozione dell’immagine originale vennero riformati per inidoneità psicofisica e trovati suicidi poche settimane dopo nei loro rispettivi appartamenti.

Lucas Payne subì invece una fine ben più atroce: tre giorni dopo il suo arresto venne rinvenuto il suo cadavere, o meglio, ciò che ne restava, nella cella d’isolamento che gli era stata assegnata. Quel povero bastardo era stato sbranato vivo dalla testa alle ginocchia: ironicamente, le pareti, insonorizzate per risparmiare agli altri pazienti e al personale i suoi deliri, avevano anche impedito a chiunque di ascoltare le sue urla agonizzanti e inviare aiuto.

L’autopsia rivelò che i segni dei morsi non appartenevano a nessuna specie conosciuta: erano una sorta d’incrocio tra i denti di uno squalo e quelli di un cane. L’aspetto più raccapricciante dell’intera vicenda fu il messaggio scritto con il sangue della vittima sul muro della cella. Due caratteri, due semplicissimi caratteri, ma sufficienti a far avere gli incubi per settimane a chiunque abbia avuto a che fare con il caso: “:)”. Il messaggio era stato scritto pochi minuti dopo la morte del ragazzo.

Passarono gli anni. Ormai ero diventato un ventenne, ma vivevo ancora a casa di mia madre. Non avevo lavoro, ovviamente, e le richieste di mamma a tal proposito diventavano sempre più insistenti. Dopotutto, era una questione di logica: trovato un lavoro, unendo i miei risparmi ai suoi avrei trovato un’abitazione per me e lei si sarebbe tolta definitivamente il peso di mantenermi. Sfortunatamente, in quel periodo ero finalmente vicino a trovare risposta alla maggior parte dei miei interrogativi, o almeno quelli che potevano averne una. Sapevo che gli ultimi pezzi del puzzle erano quasi a portata di mano, e per ottenerli tutti in un colpo solo restava soltanto una cosa da fare: rintracciare colui che per primo postò l’immagine originale sul web.

Se fossi riuscito nell’impresa, avrei potuto chiedergli cosa l’avesse spinto a farlo, se fosse stato lui a fotografare l’essere o se conoscesse il responsabile. E, se fossi stato fortunato, avrei anche placato la mia sete di conoscenza nei confronti di Smiledog stesso. Pensai che magari il tizio potesse conoscerne le motivazioni, o in alternativa, chiedergli di visionare l’immagine originale per poter incontrare di persona l’uomo-cane.

Così ancora una volta mi immersi negli abissi virtuali per sondare le risposte che cercavo… e le trovai. In realtà, non ottenni direttamente l’informazione, ma misi insieme i vari collegamenti che mi portarono alla soluzione definitiva: Smile.JPG venne postato da Daimian Waine, un residente di una piccola cittadina americana nei pressi delle ripide scogliere dell’Oregon, chiamata Duskenville.

Il ragazzo era sfortunatamente morto per cause misteriose (che non sono riuscito a trovare nemmeno sul Deep Web), e il caso venne affidato all’FBI piuttosto che alle autorità locali, suggerendo che qualcosa di grosso circondasse il decesso del poveretto. Ma, per mia fortuna, Daimian aveva un fratello chiamato David, ancora residente a Duskenville, ma non riuscii a trovare un metodo per contattarlo online. Ci riflettei molto quella notte, e decisi che la soluzione poteva essere soltanto una: andarlo a trovare di persona.

Il giorno successivo feci i preparativi. Mi svegliai molto presto, alle sei e mezza del mattino, e presi il mio vecchio zaino di scuola (che avevo conservato proprio per un’evenienza come questa), una logora cartella azzurra con il simbolo di Superman al centro, acciuffando alla rinfusa tutto quello che poteva essermi utile per il viaggio: due buste di patatine, qualche scatoletta di tonno, una bottiglia d’acqua fresca, una matita, una gomma e ovviamente tutti i miei appunti. Prelevai di nascosto duecento dollari dai risparmi di mia madre e presi dei vestiti di ricambio a caso: non potevo sapere se fossi stato costretto ad alloggiare in un albergo o in una locanda, ammesso che ce ne fossero in quel posto dimenticato da Dio.

Chiesi a mia madre se potesse portarmi alla stazione con la scusa di aver trovato su Internet l’opportunità di avere un colloquio di lavoro, e lei fu più che felice di accettare la mia richiesta. Le dissi che sarei tornato quella sera sul tardi o, se non ce l’avessi fatta, il giorno seguente. Lei mi diede le solite raccomandazioni standard e una decina di minuti dopo mi trovavo alla stazione per fare i biglietti verso l’ignoto. Salutai distrattamente mia madre e inspirai profondamente: stavo per avere le risposte alle domande che mi avevano assillato per otto lunghi anni.

Il viaggio in treno passò velocemente. Trascorsi tutto il tempo rileggendo i vari appunti e considerazioni raccolti in tutti quegli anni e stilando la lista di tutte le domande che avrei dovuto porre a David Waine, sempre ammesso che avrebbe accettato di ricevermi: non capitava mica tutti i giorni che uno sconosciuto si presentasse alla tua porta chiedendoti informazioni su tuo fratello morto diversi anni prima. Ma in un modo o nell’altro sarei riuscito a convincerlo, magari anche pagandolo con i soldi che avevo portato con me. Inoltre, pensai, in un paesino come quello tutti conoscono gli affari di tutti: se David si fosse rifiutato di parlarmi, avrei sempre potuto chiedere informazioni ai concittadini del mio obbiettivo.

Finalmente arrivai a destinazione. Scesi dal mezzo di trasporto a passo veloce, riponendo con cura i frutti del mio lavoro nello zainetto. La stazione di Duskenville era deprimente: sembrava uscita da uno di quei vecchi film Western degli anni sessanta, il che era davvero paradossale vista la fama di clima piovoso delle scogliere dell’Oregon.

Pochissime persone scesero alla fermata, probabilmente erano tutti turisti alla ricerca di un qualche paesino misterioso dove scattare qualche foto “da brivido” o semplicemente di un posto tranquillo e isolato per trascorrere in solitudine un paio di giorni, e di sicuro Duskenville avrebbe soddisfatto i requisiti di entrambi i gruppi. Uscito dalla stazione, venni immediatamente catapultato nel cuore della cittadina, e devo dire che ne fui abbastanza deluso: mi aspettavo un posto più spettrale o inquietante, invece era un normalissimo paesino di provincia, benché più piccolo e isolato di qualunque altro io avessi mai visto.

Però era ben fornito e c’era tutto il necessario per i cittadini: negozi d’abbigliamento, fruttivendoli, macellai, pescherie, drogherie, un’edicola, perfino un negozio di elettronica, e ciò che mi sorprese di più fu lo scoprire che in un posto del genere potesse effettivamente esserci una linea per connettersi a Internet, anche se fu un pensiero stupido. Se non ci fosse stata possibilità di accedere al web, come avrebbe fatto Daimian a postare la foto?

Comunque, decisi di mettermi subito al lavoro: fermai un uomo, un vecchio sull’ottantina ben vestito, mentre stava comperando una busta di mele. Aveva una lunga barba grigia e ben curata, due occhi vispi di color nocciola e un paio di occhiali abbastanza spessi e un po’ graffiati alla lente destra. Nonostante l’età possedeva ancora tutti capelli in testa, e aveva l’aria di chi i suoi ottant’anni nemmeno li sente. Sembrava molto gioviale e cordiale, al contrario della figura romanzesca del vecchio paesano scorbutico e ombroso.

“Mi scusi signore, avrei bisogno di un’informazione.”

“Ma certo, giovanotto. Sei di città, non è vero? Te lo leggo in faccia. Oh, quanto avrei voluto visitare la città quando avevo la tua età! I grattacieli, i divertimenti, le donne facili. Ah! Ma di certo andrai di fretta, e non credo tu abbia voglia di ascoltare i vaneggiamenti di un povero vecchio. Dimmi, dimmi, cosa ti porta a Duskenville, il paese più noioso dell’Oregon?”

“Stavo cercando David Waine. So che abita qui a Duskenville e…”

Il sorriso del vecchio si spense in un istante. Inarcò profondamente le sopracciglia, le rughe gli solcavano la fronte. Il tono della sua voce divenne improvvisamente profondo e cupo, e perse ogni cordialità o simpatia.

“E cosa vorresti mai da Waine? Quel ragazzo ha già sofferto abbastanza.”

“Veramente volevo solo fargli qualche domanda…”

“A Duskenville non abbiamo bisogno di quelli come voi. Tornatene da dove sei venuto, e fallo in fretta.”

Detto questo, mi voltò le spalle e si allontanò. Rimasi davvero di sasso: forse quel che dicevano i romanzi sui vecchi scorbutici nei paesi come questo non erano del tutto sbagliato, solo che dimenticavano di menzionare il fatto che fossero completamenti pazzi.

“Qui a Duskenville tutti conoscono la storia dei Waine, ma ben pochi sarebbero disposti a raccontartela.”

Era una voce alle mie spalle. Mi girai di scatto e per poco non scoppiai a ridere: il tizio che aveva parlato era la fotocopia esatta del Presidente Theodore Roosevelt.

“Con chi ho il piacere di parlare?”

“Ben Allen, agente locale.”

Mi strinse la mano. Aveva una forza sovrumana e per poco non mi spezzò le ossa! Però sembrava simpatico e in più era disposto a darmi indicazioni per trovare David. Si offrì di accompagnarmi di persona, sussurandomi molte cose interessanti strada facendo:

“Ascolta, ragazzo. Ho capito al volo perché stai cercando David Waine, e così ha fatto il vecchio Joe. Io e tutti i miei coetanei da piccoli eravamo suoi amici, e la morte del fratellino ha gettato un’ombra sull’intera Duskenville. Molti hanno tentato la fortuna in città, gettandosi quei ricordi maledetti alle spalle.

Alcuni non si sono fatti più vedere, altri qualche volta tornano a raccontarci cosa hanno fatto in questi anni, ma glielo leggi negli occhi che non vedono l’ora di andarsene a gambe levate. Qui tutto è una commedia: i sorrisi, le parole cordiali. Duskenville non conosce calore da quando Damian morì, perché nessuno sa chi fu a commettere quell’orrendo omicidio e se è ancora qui in mezzo a noi, e non abbiamo mai dimenticato il corpicino sfigurato che veniva portato via, o David in stato di shock che urlava e vomitava e piangeva, o il signor Waine che stringeva a sé i resti del bambino e si accasciava a terra a causa dell’infarto che se lo portò via.

Né abbiamo dimenticato gli agenti dell’FBI che per giorni misero sotto torchio l’intera città.

Quel giorno, qualcosa in Duskenville cambiò. Qualcosa si spezzò. Dammi retta, ragazzo mio. Qui il male ha messo le sue radici, e ha gettato la sua maledizione su una città sconvolta dal dolore. David abita lì, in quella casa vicino alla drogheria. Fai le tue domande, prendi qualcuna delle nostre ottime mele, e vattene. Non fermarti per la notte, vattene il più veloce che puoi. Torna a casa, e dimentica Duskenville e tutto ciò che le riguarda.

Dimentica questo paesino dannato e i fantocci che lo abitano, e dimentica i Waine e la loro tragica storia. Gettati tutto alle spalle e vai avanti, come avremmo dovuto fare noi, perché questo posto di miseria e diffidenza non merita di essere ricordato. Va soltanto sepolto nel cimitero del tempo, insieme a tutti gli altri tragici fallimenti della Storia umana. Insieme a tutti i tristi fantasmi che non troveranno mai la pace.”

Detto questo, andò via. La casa di David era davanti a me, eppure esitavo. Le parole di Ben mi avevano scosso, e per la prima volta provavo paura. In tutti quegli anni mi ero limitato a raccogliere i fatti e le informazioni, ma non avevo riflettuto nemmeno per un istante sulla parte emotiva, al dolore e alla sofferenza che quella storia aveva gettato su chiunque ne fosse stato coinvolto. Ma non potevo buttare al vento tutto quello che avevo fatto: il pensiero di aver sprecato otto anni della mia vita mi terrorizzava ancora di più delle conseguenze che quell’azione avrebbe portato. E così bussai. La porta si aprì.

“Chi è lei?”

“Salve. Lei è David, giusto? Volevo farle qualche domanda riguardo suo fratello…”

“Mio fratello è morto in un incidente stradale. Se ha un minimo di rispetto per il mio lutto e la sua memoria, vada via, e non torni più.”

Stava per chiudere la porta, ma riuscii a fermarla all’ultimo momento bloccandola con il piede.

“Un incidente stradale che ha visto il coinvolgimento dei federali? La prego, solo qualche domanda.”

“Senta, ma lei cosa vuole? Chi le dà tutta questa confidenza? Se ne vada immediatamente, o chiamo la polizia.”

“Per favore, si tratta solo di qualche quesito. Giuro, toglierò il disturbo in pochissimo, ne ho bisogno.”

David spalancò di nuovo la porta, ed ebbi l’occasione di osservarlo meglio. Aveva un folto pizzetto e dei capelli biondi abbastanza lunghi. Indossava una canottiera verde e dei jeans blu. Sembrava non lavarsi da mesi, puzzava di sudore e alcool e i suoi indumenti erano logori e slavati. I suoi occhi azzurri presentavano una sclera rossa e gonfia, come se non dormisse da una vita. Era più alto di me, ma anche più magro e muscoloso. Mi fissò per minuti interi, poi sospirò profondamente e disse:

“Va bene, entra. Che tu sia dannato, ragazzo, non sai in cosa ti stai andando a ficcare.”

“La ringrazio, signor Waine. Posso darle del tu?”

“Amico, fai il cazzo che ti pare. Sei un ladro? Prendi quel poco che ho e vattene. Sei un assassino? Allora sei il mio salvatore: uccidimi e facciamola finita.”

“Niente di tutto questo, come ti ho detto, volevo solo…”

“Sì, sì, fare domande su mio fratello, questo passaggio non mi è sfuggito. Fammi solo… fammi solo prendere una birra, ok? Tu accomodati pure, e non badare al disordine o ai topi, sono di casa ormai.”

Era effettivamente un appartamento molto squallido e sporco, anche se probabilmente non era stato sempre così. Le pareti, ora piene di crepe e macchie ovunque, un tempo dovevano essere molto alla moda, sicuramente scelte da una donna abbastanza esperta sull’argomento, e lo stesso valeva per i mobili e tutto quello che la casa aveva da offrire, nonostante l’evidente decadenza. Mi accomodai in salotto, appoggiando lo zaino a terra, e ripassai mentalmente le domande che avrei posto a David quando fosse tornato. Non ci mise molto: si sedette dall’altro lato del tavolo con una birra Bud in mano e mi chiese:

“Allora, queste domande? Nel caso non lo sapessi, sono un uomo molto impegnato. Passo tutte le mie giornate a tentare di trovare delle motivazioni convincenti che mi impediscano di lasciare il gas accesso e di far saltare tutto in aria, possibilmente con me all’interno, e la tua faccia mi sta davvero portando a credere che forse non sarebbe un’idea così malvagia.”

“Parlami di tuo fratello Daimian.”

“Mio fratello era un ragazzo molto difficile. E per molto difficile, intendo fottutamente pazzo. Nostra madre morì quando ancora eravamo due bambini, e mio padre non riuscì mai a superare il lutto. Era un uomo forte, un gigante bonaccione che semplicemente si spense insieme alla donna che amava. Per lui a malapena esistevamo, così toccò a me prendermi cura del mio fratellino minore. Ma non riuscii mai a sopperire alla mancanza di due genitori, e Daimian divenne un bambino incredibilmente apatico e silenzioso.

Non faceva amicizia, non parlava con nessuno, stava sempre lì in camera nostra e non mi confidava mai cosa cazzo gli passasse per la testa. Quando finalmente in paese fu possibile connettersi a Internet e aprì il negozio di elettronica, non perse tempo a chiedere a nostro padre di poter avere un computer, e lui acconsentì alle sue insistenti richieste. Non avrebbe dovuto. Da apatico, divenne totalmente asociale e ormai parlava soltanto con me. In realtà non molto, dava sempre risposte secche e vuote… a meno che non gli chiedessi cosa diavolo stesse guardando su quel computer maledetto.

Allora parlava e parlava senza stare zitto un attimo, parlava di demoni e mostri ancestrali e che aveva finalmente trovato Dio. Io ero spaventato, molto spaventato. Provai a parlarne con papà, ma la risposta era sempre la stessa: “E’ una fase, David, soltanto una fase, prima o poi gli passerà.” E infine tornava in quel silenzio che tanto bruciava e faceva male. Daimian nel frattempo peggiorava di giorno in giorno. Parlava da solo, vaneggiava, ogni tanto usciva e non si degnava nemmeno di dire dove stesse andando e cosa stesse facendo. Dannazione, una volta lo seguii e vidi che stava colpendo a morte una lucertola con una pietra.

Si girò e mi guardò con quella scintilla spaventosa negli occhi, qualcosa che non potrò mai dimenticare finché il mio maledetto cervello avrà la capacità di ricordare qualsiasi cosa. Una sera, mi disse che stava progettando qualcosa di grosso, che aveva finalmente conosciuto Dio, senza sapere che colui con cui pianificava era peggio del demonio stesso. Secondo la sua mente malata, il Creatore gli aveva affidato un compito di estrema importanza: caricare una foto su Internet e lasciare che si diffondesse, in modo da poter spargere il Suo verbo a chiunque ne venisse a contatto.

Aveva preparato tutto Lui, Daimian doveva solo schiacciare un pulsante. Io fui la prima vittima. Gli chiesi di vedere quest’immagine, e lui acconsentì tutto contento.

Fu l’inizio dell’incubo.

Amico, è un’esperienza che non si dimentica. Quella roba è il Terrore condensato in una forma fisica, un qualcosa di così abominevole che la mia mente non ne fu devastata solo per miracolo, o forse, per la mano di qualcuno che aveva deciso che il mio ruolo sulla sua infernale scacchiera non era ancora finito. Fui immediatamente colto da un grave attacco epilettico e persi ingenti quantità di sangue da ogni orifizio prima che mio padre entrasse in camera e mi portasse al pronto soccorso locale.

Tornato a casa pregai, scongiurai Daimian di cancellare quell’abominio e distruggerne ogni traccia, il computer stesso se si fosse rivelato necessario, ma lui rifiutò ostinatamente. Povero fratellino mio, era davvero convinto di star partecipando a qualche missione sacra. Quella sera stessa, mi disse, i preparativi sarebbero stati ultimati e Dio gli avrebbe dato il segnale. A mezzanotte, la foto era sul web. Lo so, avrei dovuto fermarlo, prenderlo a schiaffi, distruggere io stesso il computer. Ma non potevo, gli volevo troppo bene, e questo costò la vita a tantissime persone, compreso lui.

Perché quella sera, “Dio” si mostrò.

Eravamo in camera nostra, Daimian sembrava come posseduto: ballava, cantava, esultava, si complimentava con sé stesso per il lavoro svolto. Finché le luci non si spensero, e tutti gli oggetti elettronici in casa cominciarono a non funzionare più. E Lui apparve. Era uno spettacolo immondo, una creatura dall’orrore infinito, una sorta di uomo-cane demoniaco che abbaia e latrava e fendeva l’aria con la sua bocca bavosa piena di orridi denti aguzzi. Daimian cominciò a urlare e ad artigliarsi il volto e si cavò gli occhi da solo.

Io mi gettai sul letto e mi accucciai tremante con il cuscino atto a coprirmi la faccia per non dover assistere a quella scena terrificante.

L’ultima cosa che vidi fu Smiledog staccare la testa di Daimian con un morso e ingoiarla in un solo colpo, e quegli occhietti gialli e maligni che mi fissavano.

Non smise di sorridere nemmeno quando scagliò contro la finestra quello che restava di mio fratello, che si schiantò sull’asfalto con un tonfo secco. Poi, com’era venuto, semplicemente sparì, e in quel momento mio padre entrò in camera chiedendo perché diamine Daimian stesse urlando in quel modo a notte fonda e quando si ritrovò davanti quello spettacolo corse a raggiungere la strada per tentare di salvare suo figlio.

Io mi alzai e vomitai sul pavimento roba che non sapevo nemmeno di aver mangiato, tentando di seguire mio padre, ma ogni passo era una pugnalata al cuore. Ero in stato di shock, non sapevo di star piangendo come una fontana e non so come riuscii a non cadere dalle scale e spaccarmi il cranio, anche se col senno di poi sarebbe stato meglio così.

Quando arrivai in strada, vidi mio padre stringere a sé il piccolo corpo di Daimian con le sue mani tanto grosse e forti, che urlava e piangeva per la disperazione.

Nel frattempo tutto il paese si era svegliato: tutti si chiedevano cosa fosse successo e cosa fossero quegli strilli in piena notte… si radunarono intorno a mio padre gridando a loro volta, sconvolti dall’efferatezza di quell’omicidio. Io nel frattempo continuavo a piangere e vomitare e invocare il nome del mio fratellino mentre guardavo mio padre accasciarsi a terra. Non si rialzò più.

Quella notte persi in un solo colpo mio padre, mio fratello… e la mia libertà.”

“Libertà…?”

David tracannò un sorso di birra e si pulì la bocca con il dorso della mano.

“Non hai una buona memoria, amico, ti consiglio di prendere appunti. Hai dimenticato che io fui il primo a vedere l’immagine originale di Smile.JPG? Da quella notte, mi appare in sogno. Ogni singola notte, per anni, quel cane bastardo domina i miei incubi.

È sempre la stessa scena.

Ci sono io, in questa stanza buia, impossibilitato a muovermi. E poi Lui appare, come fece quel giorno, mi osserva e mi sorride. Parla con quella voce che sembra più il ringhio di una belva e mi dice di spargere il verbo, mostrare l’immagine a qualcun altro, e mi lascerà in pace. Si avvicina lentamente, finché non sento il suo alito fetido sulla faccia, e proprio mentre sta per staccarmela con un morso, mi sveglio.

Qualche volta è lì, ai piedi del letto, altre invece è steso di fianco a me. Mi ricorda per un’ultima volta di spargere il verbo e svanisce.

E’ così reale, come se accadesse sul serio, e ogni volta è orribile come la prima. Ho tentato in ogni modo di smetterla di dormire, ma non è fisicamente possibile. Per quanti farmaci prendessi, per quante visite dallo psicologo facessi o qualsiasi altro metodo consigliato, non si può semplicemente fare. Così provai a mantenere una parvenza di vita normale: alla prima occasione, lasciai Duskenville e mi trasferii in città, dove trovai un lavoro, una ragazza, che dopo un po’ divenne mia moglie.

E, periodicamente, Smiledog tornava a tormentare i miei sogni.

Si potrebbe pensare che, dopo anni e anni a subirsi sempre la stessa scena, uno ci faccia l’abitudine. E invece no, dannazione se è una stronzata! Ero a pezzi, avrei dato qualunque cosa pur di essere lasciato in pace. Ma sono un codardo, non ho mai avuto il coraggio di farla finita e togliermi la vita. Spargere il verbo? Impensabile.

Non avevo la forza di passare questo fardello a qualcun’altro. Inoltre, come facevo a sapere che Smiledog dicesse la verità? Mio fratello gli permise di diffondersi sul web, e lui lo divorò senza pietà non appena la sua utilità si esaurì.”

“Ma esattamente, cos’è questo verbo? Cosa dice?”

“Non sei molto sveglio, vero? Il verbo è la Follia, la sua parola è la Paura. Perché fa quello che fa? Perché Dio lo scagliò giù dal Paradiso e spedì il suo culo peloso all’inferno? Perché è il Male, il suo scopo è corrompere il fisico e la mente delle sue vittime perché lo diverte. Siamo tutti pedine sulla sua scacchiera di sangue, e lui ci manovra come gli pare.

Siamo giocattoli, burattini, strumenti. Prede.

Crede che lui non sia qui in questo momento, mentre parliamo? Io lo riconosco, il suo odore, e ti assicuro che è ovunque. Nessuno lo vede, tranne chi ha ricevuto il marchio del suo bacio di pazzia.

Adesso, è seduto al tavolo insieme a noi, e giocherella con quella tazza di porcellana maneggiandola con quelle sue orribili zampe artigliate. Fa le smorfie, si crede anche simpatico. Bastardo.”

Quelle parole mi fecero salire il cuore in gola. Smiledog era davvero lì? O erano solo i deliri di un pazzo dalla mente distrutta?

“La vuoi sapere la verità? Il mondo non è altro che una merdosa riserva di caccia. Ci sono i predatori, come Smile.JPG, e poi ci sono le prede, noi. Hai sicuramente sentito parlare di quella bestia simile al Chupacabra che si nasconde nelle foreste americane del Nordest, o di quel pazzo dalla faccia bruciata che ti entra in casa e ti accoltella mentre dormi, o di tutti quei bambini che ogni anno scompaiono nei boschi senza lasciare traccia. Credi pure a tutte le balle che ti raccontano, ma la verità è questa.

Non posso biasimarli, quei bastardi del governo. Cosa possono fare, in fondo? Rendere pubbliche tutte le storie di mostri che ti bruciano il cervello quando li guardi negli occhi? Scatenerebbe solo il panico, e non potremmo comunque farci nulla. Ma insomma, te lo immagini un cazzone che prende una pistola e tenta di sparare in faccia al demonio incarnato in un cane o qualunque cosa sia? Esilarante.

Tutto quello che puoi fare è pregare che non tocchi a te, che mentre stai guardando la televisione non si spengano improvvisamente tutte le luci e gli apparecchi elettronici non inizino a fare le bizze, e tu sei lì che tenti di auto-convincerti che sia una semplice perdita di corrente, finché una divinità extradimensionale non ti sguscia dietro e ti divora l’anima. Io lo capii cinque anni fa, il giorno del mio compleanno.

Sai, anche se non sembra, Smile.JPG è ironicamente macabro.

In certe occasioni (festività, giorni speciali) si divertiva a interrompere la solita routine con un qualcosa di un po’ più originale. Un Halloween mi svegliò in piena notte dicendo di avere un regalo per me.

Era una lunga fila di teschi umani, e ognuno di essi aveva una lettera dipinta sopra con il sangue, andando a formare uno sgocciolante “Buon Halloween!”.

Ognuno di quei crani apparteneva a una delle persone che avevo perso: uno di loro aveva il berretto di mio fratello, un altro la collanina che mia madre portava sempre al collo. Un altro ancora aveva incastrato in un’orbita la fede nuziale che mio padre portava sempre al dito, anche molto tempo dopo la morte di mamma.

Ma qualche anno dopo, il giorno del mio compleanno… lì esagerò davvero.

Quella notte non feci alcun sogno: niente Smiledog, solo buio pesto. Fu una specie di bagno rigenerante, non dormivo così da anni e pensavo fosse il suo regalo di compleanno per me. Quanto cazzo mi sbagliavo.

Quando mi svegliai, notai che mia moglie era ancora a letto, completamente coperta dal lenzuolo. Pensai che magari avesse fatto tardi a lavoro, a quell’ora doveva essere sveglia da un pezzo. Tolsi le coperte, e indovina chi trovo?

Quel cane bastardo che mi fissa e mi sorride a due centimetri dalla faccia.

Lo spavento fu tale che il mio cuore non riuscì a reggerlo, e se ora sono qui a parlarti è solo perché mia moglie tornò a casa proprio in quel momento: aveva dimenticato la borsa, e mi portò immediatamente all’ospedale. Ripensandoci oggi, dubito seriamente si trattò di un semplice colpo di fortuna.

Forse fu proprio Smiledog a manipolare gli eventi perché portassero a un mio miracoloso salvataggio. Dopotutto, chi può sapere cosa passa per la testa a quel coso? Comunque sia, raggiunsi il limite di rottura. Non mi importava più della mia morale o se Smile mentisse o meno, decisi che era troppo: avrei mostrato l’immagine originale a Beverly, mia moglie.

Sì, perché in tutti questi anni ho sempre avuto il dischetto contenente quella foto maledetta nel mio cassetto, e non importava quante volte lo bruciassi, distruggessi, gettassi in qualche luogo sperduto. Ritornava sempre al suo posto. Fortunatamente, tornai in me prima di rovinare la vita alla donna che amavo, e quando finì di lavorare le spiegai la situazione: la faccenda si stava facendo insostenibile, e per il suo bene dovevamo lasciarci. Fu una decisione difficile e dolorosa, ma non avevo scelta, capisci?

Non potevo e non volevo rovinare la vita di nessuno, tanto meno quella di mia moglie! Lei mi implorò di restare, potevamo trovare una soluzione insieme, consultare altri psicologi, ma ormai era fatta: feci le valigie e tornai in questo buco di posto, nella mia vecchia casa. Ogni tanto risento ancora Beverly, nella speranza che si sia rifatta una vita. Non dovrei. Fa male a entrambi.”

Una lacrima scese sulla guancia di David, ma non le prestai attenzione. Stavo riflettendo su una cosa molto più importante.

“Scusa, amico, è solo che quando penso a tutto quello che ho perso… tutta la mia vita rovinata…”

“Hai l’immagine originale anche qui?”

“Sì, mi segue ovunque vada.”

“E hai detto che non sapresti rispondere a domande dirette sugli scopi di Smiledog.”

“Sì, ho detto anche questo. E allora?”

“Dammi il disco.”

“Amico, ma hai ascoltato anche una sola parola di quello che ho detto? Hai idea di quello che mi stai chiedendo?”

“Ti sto chiedendo di salvarti. Io ho bisogno di quelle risposte, e sono disposto anche a pagarti. Dammi quel disco, e in un modo o nell’altro sarai salvo. Se Smiledog dice la verità, allora verrai lasciato in pace e potrai tornare da tua moglie, a condurre un’esistenza normale. Se invece mente, allora verrà a porre fine a quest’inferno che chiami vita. Non mi stai attirando con l’inganno o mi stai costringendo con la forza: te lo sto chiedendo io.”

“Io non… ne sei davvero sicuro?”

No, non lo ero. Ma ormai era troppo tardi, troppo tardi per tornare indietro. Smiledog mi terrorizzava, ma mai quanto la prospettiva di aver gettato ai rovi tutta la mia adolescenza.

“Sì, lo sono.”

David si alzò senza proferir parola, uscendo dalla stanza. Tornò pochi minuti dopo, con in mano una scatoletta blu rovinata dal tempo.

“Ragazzo… non so se amarti o maledirti. Ti chiedo solo… quando avrai visto l’immagine e avrai vissuto tutto quello che ne consegue, perdona quest’uomo folle e stanco. Io non so se ci riuscirò mai.”

A quel punto presi la scatola, raccolsi il mio zaino, salutai David e andai via. Non ho mai saputo che fine avesse fatto, ma spero davvero con tutto il cuore che, in un modo o nell’altro, per lui ci sia stato il lieto fine che quel giorno mi negai da solo.

Mi diressi alla stazione con mille pensieri che mi rimbombavano nella testa, fissando nervosamente il piccolo oggetto blu rinchiuso nella morsa del mio pugno. Quasi mi venne un colpo quando una voce possente alle mie spalle mi chiamò:

“Ehi ragazzo! Te ne stai andando? Non saluti il vecchio Ben? Ah! Com’è andata con David? Tipo interessante, eh? Avete parlato molto a lungo. Vieni, ti accompagno alla stazione.”

Non ero davvero dell’umore adatto per avere compagnia, specie se così rumorosa, ma non si poteva dire di no a quell’orso bonaccione. Così annuì, e durante il tragitto dovetti sorbirmi un poema sulla qualità delle mele di Duskenville. Quando arrivammo alla stazione, era davvero tardi, ma fortunatamente ero ancora in orario per l’ultimo treno della giornata. Ben lo aspettò insieme a me.

“Ragazzo, posso leggere negli occhi la tua inquietudine. Non so cosa ti abbia detto David, ma niente di piacevole, suppongo. Immagino sarai felice di lasciare per sempre questo posto, e non posso biasimarti per questo. Con un po’ di fortuna, anche io un giorno, quando i frutti saranno maturi, potrò andarmene da Duskenville e trasferirmi in qualche luogo più grande. Spero presto, ma non sono mai stato un tipo fortunato.

Ricorda, però: Duskenville è la prova di quello che un paesino spezzato dal dolore e dalla paura può diventare. Applica più forza, e anche comunità ben più grandi possono diventarlo. Sta a quelli come te impedire che questo accada, no? Ah! Ma cosa vuole saperne uno come me di filosofia spicciola? Guarda, il tuo treno sta arrivando.

Chissà che questo non sia un addio, ma un arrivederci? Probabilmente, lo scopriremo abbastanza presto. E cerca di dormire di più, hai due occhiaie da far paura!”

Ma ero troppo pensieroso per ascoltare anche una singola parola del vecchio Ben, così lo salutai distrattamente e salii sul treno.

E ora eccomi qui, su questo squallido vagone che sta per portarmi a casa insieme alla più pericolosa arma di distruzione di massa dell’Universo e probabilmente oltre. Fino a stamattina, non avrei avuto alcun dubbio e starei esultando per i risultati ottenuti. Ma adesso, dopo aver ascoltato dal vivo la storia di David e le parole di Ben Allen? No, chiunque esiterebbe.

Forse dovrei semplicemente gettare questa scatola maledetta giù dal treno, o venderla su Ebay, o magari infilarla di nascosto nella borsa di qualcuno. E una volta vista l’immagine, poi? Sarei stato divorato? Torturato mentalmente fino a spezzarmi? Sarei riuscito a resistere per decenni alla stessa situazione vissuta da David? O mi sarei suicidato molto, molto prima?

O magari avrei ceduto alle richieste di Smiledog, passando l’immagine maledetta a qualcun’altro e lavandomene le mani, magari addirittura diffondendola di nuovo sul web nella speranza che il demone apprezzasse il gesto e si rivelasse clemente?

Ma alla fine, siamo davvero noi stessi i padroni delle nostre azioni?

O il seme del dubbio è soltanto un altro strumento che entità molto superiori alla nostra comprensione utilizzano per rendere le nostre patetiche vite ancora più dolorose e miserabili in modo da soddisfare il loro macabro divertimento?

Siamo davvero pedine su una scacchiera molto più grande, come ha detto David?

Questo non lo so, e probabilmente nessuno di noi lo saprà mai.

Io so solo che gli avvenimenti terrificanti non finiscono con il racconto di Waine:

Annoiato, quasi distrattamente sporgo la testa dal finestrino del treno. Ben era ancora lì, alla fermata, a braccia conserte. Alza la mano per salutarmi, sorridendo.

Un sorriso molto, troppo grande.

Un sorriso rosso, grottesco e malvagio.

Un sorriso terrificante.

Un sorriso che conosco fin troppo bene.

smile

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Fonte

Nato a pane e horror, fin da subito sviluppa una particolare ed accesa passione verso il mondo del cinema horror. La cosa non si è mai attenuata, ma anzi viene accentuata dopo la creazione di Horror Stab.

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